sabato 29 giugno 2013

NUOTARE NELL'ARIA

Un'intervista di Niccolò De Mojana su RollingStonesMagazine.

Di Niccolò De Mojana
La seconda volta che Marco Corona ha visto Roma era il 1994. Il motivo del suo viaggio, in autostop da Cuneo, un concerto dei Marlene Kuntz (che però non vedrà mai). Corona inizia il racconto da qui, e trascina il lettore dentro il suo viaggio, geografico e mentale, in un vortice di ricordi e visioni che si accavallano senza sosta. Il racconto trasfigura i ricordi personali e le visioni collettive in immagini strabordanti e accecanti. Lo sguardo obliquo sul mondo ricorda quello alterato e lisergico della miglior tradizione del gonzo journalism di Hunter Thompson. Una sorta di “gonzo comics journalism”, volendo coniare una nuova definizione. Con una differenza: Corona non cerca la distorsione della percezione sotto l’effetto di droghe: per lui il mondo è già abbastanza storto e assurdo così com’è. E allora i ricordi di quella torrida estate del 1994 si fondono con gli anni più recenti, mentre la sua compagna aspetta un figlio, la Roma vince lo scudetto, gli scandali più svariati colpiscono la casta dei nostri politici e strani incubi ci portano lontano, nella Roma dei primi cristiani clandestini e in quella dei rastrellamenti nazisti. Sarà una lunga nevicata (di neve o di guano di gabbiano?) a sotterrare il passato, lasciandoci in balia del nostro caotico presente. La seconda volta che ho visto Roma, appena uscito per Rizzoli Lizard, è il nuovo romanzo grafico di Marco Corona.
La narrazione ha inizio nel 1994. Sono passati quasi 20 anni, fu un momento cruciale per la storia recente del nostro Paese (fine di Tangentopoli, primo governo Berlusconi, Mondiali USA…). Pensi che l’Italia sia peggiorata da allora?
“È diventata sentimentale, come può esserlo una vecchia baldracca che ha perso i clienti, la famiglia, i parenti e tutti gli amici. Niente più lacrime da versare, solo occhi perennemente sfatti di trucco, coperti da un velo di cataratta che sfilaccia i contorni delle cose rendendole accettabili. Niente futuro per l’Italia, nemmeno un’altra guerra potrebbe restituirci un altro miracolo economico. Siamo destinati alla sopravvivenza, cuccioli abbandonati sull’autostrada in attesa che un’anima caritatevole si prenda cura di noi”.
Nel libro si sovrappongono varie storie e sotto trame. In che misura lo consideri un romanzo autobiografico?
“Faccio fumetti, non mi considero un romanziere. La mia scrittura è a singhiozzo, incompleta perché finalizzata al racconto accompagnato dalle immagini. È un fumetto autobiografico nella misura in cui uso me stesso, la mia ignoranza, per tentare di mettere ordine alle cose. Che poi così ignorante non lo sono, ma mi serviva un me stesso che lo fosse, e una Giovanna che facesse da contrappunto. In questo senso il mio lavoro è una finzione autobiografica. Giovanna mi ha costantemente alitato sul collo impedendomi di uscire fuori tema, che in questo caso era il tentativo di raccontare una città simbolo come Roma, anche dal punto di vista sociale e politico, della cronaca. Un tentativo suicida, lo ammetto, considerando che ne hanno parlato e scritto un po’ tutti, da Flaiano a Sordi e Verdone passando per Fellini, fino ad arrivare a La Grande Bellezza di Sorrentino. Prima di venirci ad abitare non avevo mai pensato a Roma come a una città da raccontare, anche se ne avevo già disegnato una guida illustrata”.
Non conoscevo la storia di Giuseppe Albano, il ragazzo gobbo che andava a caccia di nazisti durante la seconda guerra mondiale. Come l’hai scoperta? E perché hai deciso di inserirla all’interno della storia?
“Giuseppe Albano l’ho scoperto in modo del tutto casuale, cercando notizie su alcuni quartieri di Roma. I tedeschi radunano tutti i gobbi di Roma perché cercano un gobbo. Di lui sanno solo che ha la gobba: questo mi ha fatto ridere. Il fatto che lo stesso gobbo, un ragazzo deforme, insieme alla sua banda di amici spiantati, abbia resistito due mesi all’occupazione tedesca, questo mi ha fatto pensare. Mi piace l’idea che una zecca possa mettere in difficoltà un cane pastore tedesco addestrato a uccidere”.
L’identificazione onirica con i primi cristiani perseguitati mi ha ricordato alcuni passaggi di Philip K.Dick in cui lo scrittore si convince di vivere in un mondo diviso tra romani aguzzini e cristiani clandestini. Hai preso spunto da lui? Oppure da dove?
“Conosco P.K. Dick, ho letto molti suoi libri, la sua influenza nel mio lavoro è evidente, che alto posso aggiungere?”.
Nella storia citi il Festival del fumetto indipendente Crack!, che si svolge ogni anno a Roma. Chi leggi del panorama fumettistico contemporaneo?
“Leggo di tutto, non chiedermi di elencarteli, sono troppi. Il Crack! da qualche anno a questa parte sta facendo conoscere al pubblico italiano un modo diverso di affrontare le arti figurative, il fumetto, la grafica. Scendere nelle celle del forte prenestino è un viaggio all’inferno che ti cambia, ti fa capire che il fumetto può assumere molteplici forme, può fare schifo o paura, ma soprattutto suggerisce che è ancora un territorio inesplorato in cui ci si può perdere. Quando esci dal forte la luce e il caldo sono insopportabili, poi ti abitui”.
C’è chi, per parlare del tuo stile, lo definisce “fumettismo gonzo”, così come si parla di “giornalismo gonzo” per riferirsi allo stile narrativo di Hunter S. Thompson e Lester Bangs. Chi sono i tuoi maestri, da un punto di vista narrativo (non solo fumettistico)?
“Valerio Bindi, mi ha definito un ‘Gonzo’, io ho subito pensato a Gonzo del Muppet Show, volevo telefonargli e dirgli: ‘Gonzo ce sarai te!’, poi ho incontrato Alessio Trabacchini, che mi ha spiegato che inconsapevolmente, come altri più noti e illustri predecessori, avevo fatto del Gonzo journalism. La fortuna del dilettante, immeritata. Tra i miei maestri rimango su P. K. Dick, anche perché l’elenco sarebbe sterminato”.
Parlando di Roma: non ho capito se alla fine in te prevale l’odio o l’amore verso la Città Eterna…
“L’amore, o l’odio che a volte provo per la capitale, dipende solo dal mio umore del momento. In questo momento la amo, domani chissà…”.

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