In mezzo a molte opere
generiche e trasandate, anche quando piene di buona volontà, ci sono in Italia
fumetti, cioè graphic novel, di alta qualità, diversissimi a volte tra loro ma
caratterizzati dal rigore e dalla originalità sia del segno che della
sceneggiatura. Quest’opera recente del piemontese Marco Corona, autore sapido e
versatile di opere lunghe e opere brevi (racconti – e ci piacerebbe ospitarne
uno su queste pagine) di cui assicura sia le “parole” che la “musica”, e cioè
sia il testo che le immagini, è per più aspetti sorprendente. Per il taglio
realistico del fondo – ci troviamo di fronte a una sorta di sinfonia della
capitale, affrontata per successive perlustrazioni (anche e proprio turistiche)
e per divagazioni storiche con una base ora realistica e ora del tutto
irrealistica – a dimostrazione di quell’odio-amore, di quella mescolanza non
scioglibile tra fascino e disgusto di cui conosciamo la lunga storia che ha
caratterizzato almeno dal tempo dell’Unità i rapporti tra province nordiche (e
galliche) e centro papista e soprattutto tra il piccolo e consuetudinario regno
dei Savoia e la Città
Eterna (tra le “due città” del torinese Soldati…). Il fumetto
di Corona rientra assai bene in questa tradizione, ma in modi decisamente nuovi
e odierni, e oscilla, prendendosi in giro, tra pregiudizio ovvietà rifiuto e
visionaria acutezza. A sorprendere è anzitutto il segno, l’impasto organico e
limaccioso di segno e di colore che raramente si raggruma in forme definite,
dentro un continuum materico da cui si distaccano solo parzialmente figure –
grottesche, animalesche e caricaturali, quasi liquide, sgocciolanti, come
incapaci di rassodarsi in forme definite – che si accorpano intorno a monumenti
invece più solidi, fatti di pietra e di marmo del passato. Una Roma-persona,
organismo cialtrone che si forma e deforma e che accoglie turbe e folle
scomposte, melmose, appiccicose.
L’immaginato e l’esperito si fanno la guerra ma è il sogno (l’incubo) a
prevalere, in una sorta di viaggio notturno dentro le viscere di una civiltà
alquanto oscena, che ricorda film felliniani come Roma
e il Satyricon, ma senza la morte,
dentro un organico blobbesco che sembra riprodursi all’infinito.
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